sabato 7 gennaio 2012

Scontri tribali in Sud Sudan, solo violenza "tradizionale"?

Pubblico anche qui l'articolo scritto per Repubblica online sugli scontri dei giorni scorsi nella contea di Pibor, Jonglei orientale. Aggiungo però anche un servizio del 3 gennaio di Al-Jazeera English, in esclusiva dalla città di Pibor, perché le immagini servono sempre.


Villaggi rasi al suolo dalle fiamme, 3141 vittime, di cui 2182 tra donne e bambini e 959 uomini, decine di migliaia di bovini rubati: è questo il bilancio, ancora provvisorio, delle violenze che nei giorni scorsi hanno insanguinato la contea di Pibor, nel Sud Sudan centro-orientale. Una violenza largamente prevedibile, in realtà, ma che nessuno è riuscito a fermare: nell'ultima settimana del 2011, l'anno che ha visto la tanto attesa indipendenza del Sud Sudan, circa seimila lou nuer hanno raggiunto e attaccato diversi villaggi della contea, terra della popolazione murle, una delle molte decine che compongono il complesso mosaico etnico della nuova repubblica.

Mentre il governo del Sud Sudan ha dichiarato “area disastrata” l'intero stato di Jonglei, di cui fanno parte sia i territori dei murle che quelli dei lou nuer, chiedendo un rapido e massiccio intervento delle agenzie umanitarie per dare assistenza a entrambe le popolazioni, le notizie che arrivano dalla città di Pibor sono di una calma tesa. La gente, scappata a decine di migliaia dalla città e dai villaggi circostanti per cercare rifugio nella boscaglia, sembra stia in parte tornando. La comunità internazionale presente in Sud Sudan, coordinata dalle Nazioni Unite, è già pronta per fronteggiare l'emergenza. Anche l'ong italiana Intersos, unica presenza internazionale stabile insieme a Medici Senza Frontiere nella città di Pibor, parteciperà all'operazione. “Anche il nostro compound, come quello di Msf, è stato bruciato e derubato nei giorni scorsi”, dice a Repubblica Davide Berruti, capo missione di Intersos nella neonata repubblica. “Non c'è stato pericolo per il personale, che era già stato evacuato. Siamo comunque pronti a ricominciare, siamo a Pibor dal 2010 e vogliamo tornarci al più presto. Intanto, già da subito, saremo a Boma, a sud di Pibor, dove molti degli sfollati si sono raccolti, a distribuire beni di prima necessità assieme alle altre organizzazioni”.

Ma qual è la ragione di tanta violenza? Due popolazioni di allevatori, che si scannano per il bestiame, le mucche dalle corna lunga che sono tutto ciò che di più prezioso si possa avere: simbolo di ricchezza, moneta di scambio, denaro per pagare sia le doti che i torti, fonte di latte e sangue, muse per cui comporre canzoni che ne decantino le virtù. E allora assalire la tribù confinante e avversaria e rubarne il bestiame diventa la regola. Uno scontro definito “tradizionale”. Che però da tempo non viene più combattuto con archi, frecce e lance, ma con armi automatiche di cui il Sud Sudan è zeppo. Facendo quindi molte più vittime.

Difficile dire chi abbia iniziato per primo. Perché le violenze dei giorni scorsi sono solo l'ultimo atto di una tragedia che è in scena da molti mesi. I lou nuer che hanno attaccato Pibor e i villaggi circostanti l'hanno fatto per vendicarsi dell'attacco dei murle dello scorso agosto. Allora i capi di bestiame rubati erano stati 38mila, i morti circa 600, centinaia i bambini lou nuer rapiti. Anche allora, per i murle, si trattava di una vendetta, visto che i lou nuer avevano già attaccato la contea di Pibor in giugno, a loro volta in risposta a un precedente raid dei vicini. Una spirale di violenze apparentemente senza fine, che nell'anno appena passato aveva già fatto circa 1100 morti e causato la fuga dai propri villaggi di più di 60mila persone.

Le ragioni, però, sono più complesse di quel che sembra. Per quanto il bestiame sia il centro economico della vita e del sostentamento di queste popolazioni, questo da solo non basta a spiegare ciò che sta succedendo a Pibor e dintorni. Come spiega bene un recente rapporto della Boma Development Initiative, un'iniziativa comuntaria che proprio nella contea di Pibor ha il suo centro, ci sono innanzitutto troppe armi, che i programmi di disarmo, peraltro violentissimi, attuati dopo il trattato di pace che nel 2005 ha posto fine alla guerra civile tra Nord e Sud Sudan non sono riusciti a togliere dalla circolazione. E c'è un problema generazionale, perché i giovani, protagonisti dei raid dei giorni scorsi, non riconoscono più le autorità tradizionali. Anche questa è una delle conseguenze di una guerra civile ventennale, che proprio in Jonglei ha avuto alcune delle sue fasi più cruente, con le diverse popolazioni dello stato armate l'una contro l'altra, a sostegno o contro il gruppo ribelle che ora, smesse (in parte) le mimetiche, governa il paese.

Mercoledì prossimo, a Juba, ci riuniremo con il gruppo di lavoro sul peace building”, racconta ancora Berruti. “Si tratta di un nuovo sottogruppo all'interno del cluster dedicato alla protezione dei civili, che Intersos aveva proposto. Perché è fondamentale portare aiuti d'emergenza ogni volta che ce ne sia bisogno, ma riteniamo sia importante cercare di prevenire, ad esempio creando fonti di sussistenza diverse, che permettano di uscire dalla spirale di violenza”.
Per ora si tratta di un'embrionale iniziativa delle organizzazioni umanitarie. Ma molto potrebbe fare il governo. Che negli ultimi giorni, prima che i giovani lou nuer sferrassero l'attacco finale, aveva cercato di fermarli, mandando il vicepresidente della repubblica e il ministro della giustizia, entrambi nuer, a parlare con loro per farli desistere. Parole al vento, evidentemente.

Nessun commento:

Posta un commento