lunedì 9 gennaio 2012

Ancora su Pibor: un anniversario di riflessione per il Sud Sudan


A pochi giorni dagli attacchi dei lou nuer alla contea di Pibor, terra dei murle, le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie, governative e non, presenti in Sud Sudan hanno avviato una "major emergency operaration"nel Jonglei sud-orientale. "Questa operazione d'emergenza sarà la più complessa e costosa in Sud Sudan da quando il Comprehensive Peace Agrement è stato firmato nel 2005", ha detto Lisa Grande, humanitarian coordinator delle Nazioni Unite nella neonata repubblica. 


La firma del Cpa: 9 gennaio 2005. L'inizio del referendum con cui il Sud Sudan ha scelto l'indipendenza: 9 gennaio 2011. Mi fa sinceramente uno strano effetto ripensare all'immensa gioia e all'orgoglio con cui i sudsudanesi si sono recati alle urne un anno fa per scegliere il futuro del loro paese e paragonarli con le nubi scure che coprono l'orizzonte attuale del Sud Sudan.
Gli scontri tra lou nuer e murle, come quelli tra altre popolazioni e tribù, non sono una novità degli ultimi mesi. E non sono l'unica faccia del Sud Sudan, ce ne sono di molto più positive senza dubbio (e ve lo dimostrerò tra poco). Però comunque fa male pensare alle decine di migliaia di persone sfollate, ai morti e ai feriti. E a quelli che ancora continuano e continueranno a morire per scontri simili, perché purtroppo bisogna essere realisti: nessuno - né governo, né Unmiss, l'operazione di peacekeeping dell'ONU che ha sostituito Unmis (non è una presa in giro né un refuso...) dopo l'indipendenza del Sud - ha la bacchetta magica per far finire immediatamente questo tipo di scontri. Infatti oggi Sudan Tribune riporta la notizia di una vendetta dei murle, che ieri hanno attaccato i lou nuer della contea di Akobo.

Il commissioner di Akobo ha parlato di 23 vittime, una cifra che, chiarisce Sudan Tribune, non è stata verificata indipendentemente. Una precisazione che suona ancora più rilevante dopo che ieri diverse agenzie di stampa e giornali internazionali hanno riportato la notizia che la rappresentante speciale del Segretario Generale, la norvegese Hilde Johnson, ha smentito il bilancio di 3141 vittime degli scontri della contea di Pibor, circolato e ampiamente ripreso (anche da me, nel mio piccolo) nei giorni scorsi. 
Un lancio dell'Ansa ieri diceva che 

Non ci sono prove di massacri in Sud Sudan dopo l'esplosione di violenze etniche nel paese, ma 60.000 persone hanno urgente bisogno di assistenza. È quanto ha dichiarato Hilde Johnson, rappresentante speciale dell'Onu nel Sud Sudan. L'inviata ha detto all'Afp che le informazioni che parlavano di oltre 3.000 persone uccise la scorsa settimana dopo un attacco nella regione di Pibor, nello stato di Jonglei, da giovani armati si sono rivelate infondate.

Ho cercato le dichiarazioni della Johnson nella versione originale, in inglese, e forse le cose non sono proprio così nette come le ha messe l'Ansa. La Johnson infatti ha detto che "al momento non siamo certi dei numeri, ma sappiamo che le aree più popolose come Pibor e Likuangole sono state ampiamente protette. Abbiamo bisogno di valutare la situazione con cura". Che è ben diverso dal dire che non ci sono prove di massacri. L'audio della dichiarazione di Hilde Johnson e quello, in arabo, del commissioner di Pibor, che invece ha ribadito che le autorità locali hanno contato 3141 vittime e continuano a trovare corpi senza vita, li potete ascoltare sul sito di Radio Miraya.
Ma è veramente essenziale sapere se i morti sono 3000, 2000, 500 o 100? Certo, cambia la portata degli scontri. Ma cambia davvero la sostanza del problema? Lisa Grande ha detto che da quanto ne sa per il momento l'Onu i morti potrebbero essere "anywhere from dozens to hundreds". Quindi in ogni caso numeri inaccettabili, anche perché sono quelli di una sola fase del lungo conflitto che mesi contrappone le due comunità.

Tra le altre notizie, la radio riporta anche la decisione di Unmiss di rimanere costantemente in quell'area del paese. Che è estremamente isolata, la Grande l'ha spiegato bene parlando dei costi altissimi dell'operazione umanitaria appena iniziata: tranne l'area di Boma, raggiungibile via terra, tutte le altre aree in cui si opererà sono raggiungibili solo via aria, anche durante la stagione secca, perché non esistono strade che arrivino fino a Pibor, Akobo, eccetera. Aree remote, scarsa presenza dell'esercito nazionale, ancora inferiore quella dei caschi blu: per interrompere il circolo vizioso non si può pensare di intervenire solo sul fronte dell'azione militare, non ci sono le condizioni. Bisognerà quindi cercare di trovare delle altre vie: un'altra sfida tutta in salita per un governo che ne ha fin troppe da affrontare.

Avevo promesso di parlare anche di aspetti più positivi. E allora vi rimando al blog del mio amico José Vieira, missionario e giornalista, che ha pubblicato un post con foto che parla delle centinaia di persone che, vestite di bianco, sono scese per le strade di Juba oggi, in occasione dell'anniversario della firma del Cpa, per manifestare per la pace e protestare contro guerra e tribalismo. Il concetto di "conflitti tradizionali" evidentemente infastidisce anche loro. 
Per chiudere, un link a un articolo del New York Times sulla stampa sudsudanese e suoi brutti segnali di eccessiva volontà di controllo, anche con metodi extragiudiziali, del governo e delle forze di sicurezza. E' una questione su cui mantenere alta l'attenzione, ma vi invito in questo momento ad apprezzare la parte più positiva che emerge dall'articolo: lo sforzo di giornalisti e direttori che, in condizioni realmente difficili e precarie, cercano di fare il loro lavoro di cronisti con serietà e libertà. Serve anche questo alla crescita delle neonata repubblica. 


Le foto sono state fatte un anno fa, all'apertura dei seggi per il referendum. File composte e balli e canti a celebrare la festa. Una giornata indimenticabile per i sudsudanesi. Ma anche per tutti gli stranieri presenti quella settimana a Juba e nel resto del paese.

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