Dopo giorni di proteste in diverse capitali del mondo arabo e musulmano contro l'ignobile video "L'innocenza dei musulmani" rompo il mio lungo silenzio sul blog per condividere alcune riflessioni e domande che da tempo mi girano per la testa e che i fatti degli ultimi giorni hanno solo confermato.
I temi sono tanti e quindi cercherò di essere più schematica possibile.
Innanzitutto, il solito mal di stomaco (per usare un eufemismo) che mi provoca leggere i giornali o ascoltare i telegiornali nostrani. Ne avevo parlato tempo fa a proposito dei titoli su alcuni attacchi a comunità cristiane in Nigeria e Kenia, avvenuti in contemporanea solo casualmente. Lo stesso tipo di ragionamento vale ora, per i titoli di questi giorni sulla "furia islamica". Non voglio dilungarmi, preferisco rimandare al post di oggi di Paola Caridi, sul suo blog Invisible Arabs, che condivido fin nelle virgole.
Sottolineo in particolare questo brano:
No, non possiamo. Sono manifestazioni che fanno sorgere molte domande, che possono anche spaventare visto che prendono di mira le ambasciate occidentali, soprattutto statunitensi, ma sono minoritarie, ampiamente minoritarie. La stessa Paola ha cercato ieri di ragionare sui luoghi delle proteste per rispondere alla domanda "ma perché ce l'hanno con noi?". E' ovviamente importante capire il contesto locale, perché ogni situazione, ogni paese e ogni capitale è diversa.
Ma credo che ci sia innanzitutto un'altra risposta da dare a quella domanda legittima: no, non ce l'hanno con noi. Non la maggioranza delle popolazioni di questi paesi, quantomeno. Certo, il sentimento anti-americano è diffuso, ma sul piano politico, non su quello personale. E comunque, tranne che in alcuni casi evidentemente molto minoritari, non si tratta di odio senza quartiere. Non so quanti abbiano sottolineato (e si torna all'inizio, al problema dell'informazione...) che nei giorni scorsi nelle capitali arabe e musulmane ci sono state anche manifestazioni contro l'uso della violenza contro le rappresentanze diplomatiche occidentali. Bastava dare un'occhiata rapida a Twitter da mercoledì in poi per vedere migliaia e migliaia di tweets di utenti libici, egiziani, sudanesi e via dicendo che tuonavano contro gli attacchi alle ambasciate, contro l'utilizzo del vilipendio di Maometto e dell'islam come ragione per scatenare violenza.
E' per questo che non posso essere d'accordo con l'"Amaca" di Michele Serra di oggi, in particolare quando dice che "l'odio che in questi giorni infiamma le piazze e versa sangue è contro gli occidentali visti come una sola, immensa, indistinta tribù di blasfemi e di impuri". Mi pare una posizione fuorviante e pericolosa. Per un'amplissima maggioranza di musulmani il riconoscimento degli altri come persone c'è eccome e ridurre i musulmani a tribali arretrati non è dissimile da quanto lo stesso Serra denuncia, ovvero vedere tutti gli occidentali come blasfemi e impuri. Se non si inizia a fare delle distinzioni, a sottolineare le differenze e le sfumature si fa esattamente il gioco degli estremisti di entrambe le parti, di chi in questi giorni ha protestato contro l'ambasciata USA al Cairo come di quel pazzo di reverendo Terry Jones, che purtroppo non coglie mai l'occasione di stare zitto (c'è anche lui dietro il battage pubblicitario per il video anti-islamico).
C'è però un altro elemento che di solito si sottolinea poco, tutti concentrati sull'aspetto della contrapposizione tra religioni: quello socio-economico. E' una cosa su cui sto ragionando da tempo. Evidentemente, e ovviamente, non sono l'unica. Stamattina un mio amico di FB che da anni vive e lavora a Khartoum, teatro ieri di attacchi alle ambasciate tedesca, inglese e statunitense, ha aggiornato il suo status con queste parole:
A me non pare un paragone troppo azzardato. Soprattutto non è azzardato allargare l'immagine e guardare cosa sta succedendo in altre piazze e in altre strade, non arabe né musulmane. Neanche farlo apposta, l'homepage di Al-Jazeera di questo pomeriggio serve perfettamente a spiegare cosa intendo. Da settimane i lavoratori delle miniere di platino sudafricane sono in sciopero, una vicenda che al-Jazeera e, in misura minore, il Financial Times hanno seguito in queste settimane con un'attenzione che altri network e giornali stranieri non hanno avuto (esclusi i sudafricani, ovviamente). La seconda notizia di apertura riguarda la continuazione delle proteste contro il video, la terza le indagini sull'attacco di Bengasi, la quarta sulle manifestazioni contro le misure di austerity in Spagna. La quinta sulle proteste anti-giapponesi in Cina, ma quella è un'altra storia. Manca all'appello la manifestazione di oggi delle opposizioni anti-Putin a Mosca.
Il mondo islamico è quella bomba a orologeria che vorrebbero farci credere? Forse, ma non meno delle nostre periferie disastrate, dei giovani e meno giovani senza prospettive di nessun genere in altri paesi del terzo mondo, ma anche del secondo e del primo. Il problema religioso mi pare, onestamente, un non-problema in se stesso. Diventa valvola di sfogo e/o rifugio per chi ha perso altri punti di riferimento. Non è un caso, direi, che le proteste del Cairo sono diventate violente quando gli ultras delle squadre di calcio della metropoli ne hanno assunto il controllo. Frange di ultras che non sono diversi, per violenza e addestramento, da quelli di casa nostra.
Leggere tutto attraverso il filtro della religione nasconde a mio parere dinamiche politiche, economiche e sociali che invece sono elementi che contribuiscono in misura determinante a portare la gente nelle piazze. Basta leggere le parole di Moeletsi Mbeki, fratello dell'ex presidente sudafricano Thabo Mbeki, sulla vicenda della miniera di Marikana: mutatis mutandis, la sua griglia di analisi e la sua critica allo status quo socio-politico sudafricano può adattarsi bene a spiegare la rabbia crescente non solo nella Rainbow nation, ma anche altrove, al Cairo come a Tunisi o a Khartoum.
Infine, un'ultima annotazione. Nell'intenso dibattito di oggi pomeriggio su FB ho notato come ci sia molta, troppa confusione tra salafiti e islamisti moderati. Sono in molti ad avere l'idea che le primavere arabe sono state messe sotto scacco dagli integralisti più duri e puri. Non è così. I salafiti ci sono, sono un fenomeno che preoccupa e che va monitorato, ma non hanno il controllo né sono un prodotto delle rivoluzioni del 2011.
I gruppi radicali c'erano già, non sono nati nell'ultimo anno. E non vanno confusi con i Fratelli Musulmani o con gli islamisti moderati di Ennahda in Tunisia. Sono cose radicalmente diverse, direi. In Egitto i salafiti hanno avuto un ottimo risultato elettorale, ma non governano né saranno presumibilmente coinvolti in alcun modo. In Tunisia Ennahda ha vinto le elezioni e governa, ma la presidenza della repubblica è andata al leader del partito laico, in un accordo di power-sharing di transizione teso a escludere gli estremi. Non mi pare male. Soprattutto, è la democrazia: vince chi ha più voti, non chi piace a noi!
In Egitto i vari gruppi rivoluzionari laici non sono stati in grado di esprimere un candidato presidenziale unico e alla fine ha vinto Morsy. Speriamo che abbiano capito la lezione e la prossima volta si dividano di meno. In Libia il partito legato ai Fratelli Musulmani ha perso e riconosciuto la vittoria della coalizione più liberale. Insomma, il panorama è molto mosso, le transizioni messe in moto dalle primavere arabe sono tutt'altro che concluse e le semplificazioni, gli schemi e le dietrologie servono fino a un certo punto, perché in ogni paese ci sono dinamiche ed equilibri interni che nessuno, né l'Occidente né il Qatar o l'Arabia Saudita, con tutti i loro soldi, possono controllare.
I temi sono tanti e quindi cercherò di essere più schematica possibile.
Innanzitutto, il solito mal di stomaco (per usare un eufemismo) che mi provoca leggere i giornali o ascoltare i telegiornali nostrani. Ne avevo parlato tempo fa a proposito dei titoli su alcuni attacchi a comunità cristiane in Nigeria e Kenia, avvenuti in contemporanea solo casualmente. Lo stesso tipo di ragionamento vale ora, per i titoli di questi giorni sulla "furia islamica". Non voglio dilungarmi, preferisco rimandare al post di oggi di Paola Caridi, sul suo blog Invisible Arabs, che condivido fin nelle virgole.
Sottolineo in particolare questo brano:
A protestare, in questi giorni, saranno state 10mila, forse ventimila persone? Vogliamo esagerare, e stimarne cinquantamila? Joe Bradford parla di 9mila dimostranti in giro per il mondo. Io credo che ce ne siano stati di più, tra le centinaia a Sydney di stamattina e le poche migliaia del Cairo, sino ai numeri più consistenti di Khartoum, di San’a, di Tunisi. E se anche fossero stati centomila, un totale di centomila in tutti i paesi a maggioranza musulmana, dove – nel complesso – vivono un miliardo e duecento milioni di fedeli nell’islam, possiamo veramente – come giornalisti – dipingere quello che sta succedendo in questi giorni come una vera e propria insurrezione, una rivolta, un’orda furiosa?
No, non possiamo. Sono manifestazioni che fanno sorgere molte domande, che possono anche spaventare visto che prendono di mira le ambasciate occidentali, soprattutto statunitensi, ma sono minoritarie, ampiamente minoritarie. La stessa Paola ha cercato ieri di ragionare sui luoghi delle proteste per rispondere alla domanda "ma perché ce l'hanno con noi?". E' ovviamente importante capire il contesto locale, perché ogni situazione, ogni paese e ogni capitale è diversa.
Ma credo che ci sia innanzitutto un'altra risposta da dare a quella domanda legittima: no, non ce l'hanno con noi. Non la maggioranza delle popolazioni di questi paesi, quantomeno. Certo, il sentimento anti-americano è diffuso, ma sul piano politico, non su quello personale. E comunque, tranne che in alcuni casi evidentemente molto minoritari, non si tratta di odio senza quartiere. Non so quanti abbiano sottolineato (e si torna all'inizio, al problema dell'informazione...) che nei giorni scorsi nelle capitali arabe e musulmane ci sono state anche manifestazioni contro l'uso della violenza contro le rappresentanze diplomatiche occidentali. Bastava dare un'occhiata rapida a Twitter da mercoledì in poi per vedere migliaia e migliaia di tweets di utenti libici, egiziani, sudanesi e via dicendo che tuonavano contro gli attacchi alle ambasciate, contro l'utilizzo del vilipendio di Maometto e dell'islam come ragione per scatenare violenza.
E' per questo che non posso essere d'accordo con l'"Amaca" di Michele Serra di oggi, in particolare quando dice che "l'odio che in questi giorni infiamma le piazze e versa sangue è contro gli occidentali visti come una sola, immensa, indistinta tribù di blasfemi e di impuri". Mi pare una posizione fuorviante e pericolosa. Per un'amplissima maggioranza di musulmani il riconoscimento degli altri come persone c'è eccome e ridurre i musulmani a tribali arretrati non è dissimile da quanto lo stesso Serra denuncia, ovvero vedere tutti gli occidentali come blasfemi e impuri. Se non si inizia a fare delle distinzioni, a sottolineare le differenze e le sfumature si fa esattamente il gioco degli estremisti di entrambe le parti, di chi in questi giorni ha protestato contro l'ambasciata USA al Cairo come di quel pazzo di reverendo Terry Jones, che purtroppo non coglie mai l'occasione di stare zitto (c'è anche lui dietro il battage pubblicitario per il video anti-islamico).
C'è però un altro elemento che di solito si sottolinea poco, tutti concentrati sull'aspetto della contrapposizione tra religioni: quello socio-economico. E' una cosa su cui sto ragionando da tempo. Evidentemente, e ovviamente, non sono l'unica. Stamattina un mio amico di FB che da anni vive e lavora a Khartoum, teatro ieri di attacchi alle ambasciate tedesca, inglese e statunitense, ha aggiornato il suo status con queste parole:
Le rivolte nascono da pretesti (films e ingiurie a Maometto) ma a mio modo di vedere la ragione di fondo è l’estrema frustrazione di masse di popolazione che covano rabbia per anni di umiliazione a causa di una vita condizionata da ingiustizia, mancanza di prospettive e libertà.Sono migliaia di persone semi analfabete o con bassissimo livello di educazione, persone che vivono ai margini di società già marginalizzate che rimangono preda di estremismi e nazionalismi, ubriachi della loro collera a causa del loro futuro insostenibile. Sono giovani e giovanissimi, laureati e/o disoccupati, che stanno per essere risucchiati alle estremità. Gente che non vede il futuro ma solo, forse, il domani.Persone arrabbiate con la vita che non hanno valvole di sfogo.Forse è un azzardo ma un parallelismo con quello che noi stiamo iniziando a vivere in occidente si può fare: si corre il rischio che questo succeda sempre più spesso anche da noi, con migliaia di persone frustrate e in collera che sfogheranno la loro rabbia con violenza indistinta non contro Borghezio e le sue magliette ma magari per una maglietta bagnata di Belen.
A me non pare un paragone troppo azzardato. Soprattutto non è azzardato allargare l'immagine e guardare cosa sta succedendo in altre piazze e in altre strade, non arabe né musulmane. Neanche farlo apposta, l'homepage di Al-Jazeera di questo pomeriggio serve perfettamente a spiegare cosa intendo. Da settimane i lavoratori delle miniere di platino sudafricane sono in sciopero, una vicenda che al-Jazeera e, in misura minore, il Financial Times hanno seguito in queste settimane con un'attenzione che altri network e giornali stranieri non hanno avuto (esclusi i sudafricani, ovviamente). La seconda notizia di apertura riguarda la continuazione delle proteste contro il video, la terza le indagini sull'attacco di Bengasi, la quarta sulle manifestazioni contro le misure di austerity in Spagna. La quinta sulle proteste anti-giapponesi in Cina, ma quella è un'altra storia. Manca all'appello la manifestazione di oggi delle opposizioni anti-Putin a Mosca.
Il mondo islamico è quella bomba a orologeria che vorrebbero farci credere? Forse, ma non meno delle nostre periferie disastrate, dei giovani e meno giovani senza prospettive di nessun genere in altri paesi del terzo mondo, ma anche del secondo e del primo. Il problema religioso mi pare, onestamente, un non-problema in se stesso. Diventa valvola di sfogo e/o rifugio per chi ha perso altri punti di riferimento. Non è un caso, direi, che le proteste del Cairo sono diventate violente quando gli ultras delle squadre di calcio della metropoli ne hanno assunto il controllo. Frange di ultras che non sono diversi, per violenza e addestramento, da quelli di casa nostra.
Leggere tutto attraverso il filtro della religione nasconde a mio parere dinamiche politiche, economiche e sociali che invece sono elementi che contribuiscono in misura determinante a portare la gente nelle piazze. Basta leggere le parole di Moeletsi Mbeki, fratello dell'ex presidente sudafricano Thabo Mbeki, sulla vicenda della miniera di Marikana: mutatis mutandis, la sua griglia di analisi e la sua critica allo status quo socio-politico sudafricano può adattarsi bene a spiegare la rabbia crescente non solo nella Rainbow nation, ma anche altrove, al Cairo come a Tunisi o a Khartoum.
Infine, un'ultima annotazione. Nell'intenso dibattito di oggi pomeriggio su FB ho notato come ci sia molta, troppa confusione tra salafiti e islamisti moderati. Sono in molti ad avere l'idea che le primavere arabe sono state messe sotto scacco dagli integralisti più duri e puri. Non è così. I salafiti ci sono, sono un fenomeno che preoccupa e che va monitorato, ma non hanno il controllo né sono un prodotto delle rivoluzioni del 2011.
I gruppi radicali c'erano già, non sono nati nell'ultimo anno. E non vanno confusi con i Fratelli Musulmani o con gli islamisti moderati di Ennahda in Tunisia. Sono cose radicalmente diverse, direi. In Egitto i salafiti hanno avuto un ottimo risultato elettorale, ma non governano né saranno presumibilmente coinvolti in alcun modo. In Tunisia Ennahda ha vinto le elezioni e governa, ma la presidenza della repubblica è andata al leader del partito laico, in un accordo di power-sharing di transizione teso a escludere gli estremi. Non mi pare male. Soprattutto, è la democrazia: vince chi ha più voti, non chi piace a noi!
In Egitto i vari gruppi rivoluzionari laici non sono stati in grado di esprimere un candidato presidenziale unico e alla fine ha vinto Morsy. Speriamo che abbiano capito la lezione e la prossima volta si dividano di meno. In Libia il partito legato ai Fratelli Musulmani ha perso e riconosciuto la vittoria della coalizione più liberale. Insomma, il panorama è molto mosso, le transizioni messe in moto dalle primavere arabe sono tutt'altro che concluse e le semplificazioni, gli schemi e le dietrologie servono fino a un certo punto, perché in ogni paese ci sono dinamiche ed equilibri interni che nessuno, né l'Occidente né il Qatar o l'Arabia Saudita, con tutti i loro soldi, possono controllare.
Sono sostanzialmente d'accordo: centomila persone su un miliardo e duecento milioni sono un numero insignificante. Si moltiplicano esponenzialmente però nel momento in cui voi giornalisti puntate su di loro costantemente i proiettori e non parlate (quasi) d'altro. Il pianeta che viene analizzato dai Rai3Mondo, ad esempio, è composto da Europa, Stati Uniti e Medio Oriente. Qualche volta il Medio Oriente arriva a coinvolgere tutta l'Africa settentrionale, ma questo è il massimo della concessione. La Cina (un miliardo e 336 milioni di abitanti) esiste poco e solo in relazione agli Stati Uniti e all'Europa. L'India (un miliardo e 173 milioni di abitanti) è una silenziosa e noiosa presenza nell'Asia e forse non esiste neanche. Il sudamerica è composto da 385 milioni di abitanti che fanno perennemente la siesta e non creano notizie. Forse Rai3Mondo ignora completamente che esista l'Oceania. Ma la cosa più antipatica è che in realtà non si parla praticamente mai neanche dell'Africa subsahariana che continua a mutare i confini dei propri Stati, notizie completamente irrilevanti a confronto dello sciopero degli insegnanti di Chicago: vuoi mettere?
RispondiEliminaGentile Anonimo,
RispondiEliminasono io a non essere completamente d'accordo con lei. Se ha dato un'occhiata ad altri post di questo blog avrà visto che sono la prima a prendermela contro i giornali e i media (e quindi anche contro i giornalisti) italiani. Ma non sono d'accordo con quanto dice su Radio3Mondo, e non per difesa aprioristica della redazione di cui faccio parte. Dal suo commento non si capisce se ce l'ha con la rassegna della stampa estera delle 6.50 o con l'approfondimento delle 11.30 o con entrambi. Quello che dice può essere (molto) parzialmente vero per la rassegna stampa. Che però è - appunto - una rassegna stampa, quindi riferisce ciò che i giornali stranieri dicono. Come dice lei il mondo è grande, ma noi abbiamo solo 19 minuti di trasmissione e dobbiamo riportare quelle che sono le principali notizie. I giornali e le agenzie di stampa cinesi (quelle disponibili in inglese, ovviamente) sono controllati e citati ogni giorno. Anche giornali indiani o sudamericani vengono controllati spesso, ma non sempre riescono a essere citati, perché non c'è spazio purtroppo per notizie per così dire "singole", riportate da un unico giornale e magari neanche tra i network più importanti (che non sono necessariamente solo quelli occidentali, sia ben chiaro!). L'Europa è molto presente, certo, ma è ovvio che sia così, visto che quasi ogni decisione presa a Bruxelles, a Francoforte, a Berlino o a Madrid ci riguarda molto da vicino e potrebbe condizionare il futuro della nostra economia e del nostro paese. Ma non si può dire che ci sia solo quello. Parlo naturalmente solo per le mie più recenti settimane di conduzione e le ricordo che siamo stati tra i pochi a parlare ripetutamente degli scioperi dei minatori in Sudafrica o delle elezioni del nuovo presidente somalo, così come dell'inizio dei dialoghi tra le Farc e il governo colombiano e della diatriba territoriale tra Cina e Giappone, che sta subendo un'escalation in questi giorni ma di cui noi abbiamo dato conto già a metà agosto.
C'è poi l'approfondimento delle 11.30. E qui, dove il conduttore e la redazione hanno maggior libertà di scegliere gli argomenti, non si può davvero dire che i continenti da lei citati non siano presenti. Di nuovo, e ovviamente, grande spazio viene dato all'Europa, ma credo che siamo stati tra i pochissimi a fare una puntata sulla Somalia alla vigilia dell'elezione del nuovo presidente. Oggi è in calendario uno speciale di un'ora sull'Uganda. E questi sono solo i primi due esempi che mi vengono in mente.
Per finire, lei giustamente dice che dedichiamo grande spazio al Medio Oriente. E' vero soprattutto per quel che riguarda la rassegna stampa, per i motivi citati prima. Ma il problema - e qui mi ricollego al mio post originale - non è QUANTO se ne parla, è COME se ne parla. E' su questo che mi indigno e su cui verte il post di Paola Caridi a cui faccio riferimento nel testo. E sempre su questo, mi sento di dire che Radio3 è piuttosto attenta. Se non ne ha ancora avuto l'occasione, le consiglio di riascoltare in podcast la puntata di Tutta la città ne parla del 13 settembre. A mio parere vale veramente la pena.
Innanzi tutto preciso che mi riferisco alla rassegna stampa delle 6.50 e che mi riferisco a questa come al massimo dell'informazione radiofonica su politica estera, per cui siamo d'accordo che per possiamo considerarla un fiore nel deserto e quindi la mia non è una stroncatura totale. Posso anche dire: "per fortuna c'è almeno rai3mondo".
RispondiEliminaDetto questo per risponderle adeguatamente dovrei segnarmi per i prossimi mesi il riassunto puntata per puntata. Sì è vero ci sono delle eccezioni: proprio stamattina è stata detta una parola sulla Somalia.
Sono un ascoltatore abbastanza assiduo e attento e la prego di credermi se le dico che in piena campagna elettorale statunitense sono stati fatti approfondimenti che sono durati 19 minuti arrivando fino all'aneddotica. L'esempio dello sciopero degli insegnanti di Chicago è abbastanza esplicativo.
Ora, che gli USA detengano una leadership mondiale potrebbe essere un interessante argomento di discussione, visto che al momento stanno obbedendo ciecamente alla Cina, loro principale creditore. Ma anche fosse ancora vero, il tempo della rassegna stampa dedicato solo a loro resta spropositato a mio avviso. Poi per tornare al mondo islamico sarebbe interessante fare un sunto delle puntate precedenti alla primavera araba. C'è un simpatico aneddoto in rete di un signore che andando sempre dallo stesso fornitore di Kebab riceveva notizie che non trovavano riscontro nei mezzi di comunicazione di massa occidentali, e che preannunciavano ampiamente le rivolte che da lì a poco si sono verificate.
Quello che succede tra Palestina e Israele è invece ampiamente trattato, ma è di una noia mortale come ha giustamente rilevato Umberto Eco in una sua Bustina di Minerva dove fingeva di leggere un giornale di qualche decennio fingendo di credere che fosse attuale.
Un'ultima cosa: è vero che quello che succede in Europa è molto importante per la vita di tutti noi, ma proprio per questo molto spesso viene riproposto tale e quale qualche minuto dopo a prima pagina. E' pur vero che non tutti gli interessati riescono a seguire entrambe le trasmissioni (come me che purtroppo ho un itinerario piuttosto lungo per recarmi al lavoro), ma quando questo succede evitiamo i doppioni almeno negli approfondimenti.
Insomma se non si può fare di meglio tocca accontentarsi, però non è assolutamente vero che ci sono 19 minuti di politica estera a tutto tondo.
Mi fa un po' sorridere questo suo ripetuto riferimento allo sciopero di Chicago. Ora, visto che ne ho parlato io (e non era durante le settimane delle convention repubblicana e democratica, era la settimana dopo quest'ultima), le spiego volentieri come la notizia è arrivata in rassegna stampa. Semplicemente era una delle notizie principali sia del NYTimes che del Washington Post nel giorno (o forse era il giorno prima) che Radio3 dedicava all'inizio della scuola con tutta la sua programmazione. Quindi quel giorno l'ho citato soltanto, molto brevemente, per poi fare "il lancio" della giornata sulla scuola di Radio3 e chiedere agli ascoltatori di mandare commenti, testimonianze, ecc. Uno dei giorni successivi lo sciopero di Chicago occupava buona parte delle homepage dei due giornali sopracitati: articoli di apertura, analisi, editoriali, commenti e via dicendo. Non potevo non parlarne, visto che era chiaramente il tema dominante sui due quotidiani di punta USA. E le posso assicurare che ho tagliato molto corto rispetto a tutto il materiale che c'era, proprio perché anche per la mia sensibilità la notizia era meno importante di altre riportate da altri giornali stranieri.
RispondiEliminaSiamo d'accordo che qualsiasi prodotto è migliorabile, su questo non ci piove. Però il "rischio-doppioni" che lei segnala non è eliminabile, per la natura stessa delle due trasmissioni: la prima legge i giornali stranieri, la seconda quelli italiani. Se poi sia giornali stranieri che italiani trattano una stessa notizia dandole grande rilievo - e ovviamente con molte vicende europee succede spesso - non possiamo farci niente. La notizia è la stessa, ma magari i giornali di diversi paesi, italiani compresi, la trattano in modo diverso, sottolineano aspetti diversi, fanno commenti che possono essere anche di segno opposto. E' a questo che servono le rassegne stampa, a segnalare le diverse letture.