Quanto è
ragionevole, per un paese la cui economia dipende al 98% dalle
entrate petrolifere e che è tra i più poveri al mondo, decidere di
bloccare la sua intera produzione di greggio? Poco, pochissimo.
Eppure è proprio questa la decisione senza precedenti che il governo
della neonata repubblica del Sud Sudan ha preso nei giorni scorsi: il
consiglio dei ministri di Juba ha deliberato venerdì in favore dello
stop totale all'estrazione e all'esportazione di petrolio, che
dovrebbe diventare operativo tra due settimane. E che rimarrà in
vigore fino a nuovo ordine, che, ha spiegato il ministro per il
petrolio e le attività minerarie, Stephen Dhieu Dau, arriverà solo
quando il governo del vicino Sudan, dal quale Juba si è staccata il
9 luglio scorso, accetterà “un compromesso equo”. Oppure quando
il Sud Sudan avrà delle nuove infrastrutture che lo rendano
indipendente da quelle sudanesi.
Come
si è arrivati a tanto? È presto detto: il Sud Sudan non ha sbocchi
al mare e per trasportare e vendere la sua risorsa principale –
ovvero circa il 75% dei 500mila barili al giorno che il Sudan
unitario produceva – deve fare affidamento sulle infrastrutture
petrolifere del vicino settentrionale: un
oleodotto di 1600 km, le raffinerie, il porto di Port Sudan.
Dal trattato di pace del 2005, che ha posto fine alla guerra civile
ventennale tra le due regioni, le entrate petrolifere sudsudanesi
sono state spartite fifty-fifty
tra il governo centrale a Khartoum e quello autonomo di Juba. Con
l'indipendenza del Sud l'obbligo di spartire i proventi petroliferi è
caduto. Ma è diventato necessario trovare un accordo sulle tariffe
che il Sud Sudan deve pagare per utilizzare le infrastrutture che gli
investitori stranieri, prima tra tutti la Cina, e il governo del
Sudan hanno costruito alla fine degli anni Novanta.
I negoziati, iniziati più di un anno fa, non hanno ancora dato
nessun risultato, né su questa né sulle altre questioni rimaste in
sospeso dopo la nascita del nuovo stato (il confine, la spartizione
del debito estero, i diritti di cittadinanza dei sudsudanesi al Nord
e dei nordsudanesi al Sud e via dicendo). Le divergenze sulle tariffe
da pagare, con Juba che vuole adeguarsi agli standard internazionali
e Khartoum che invece chiede 32 dollari al barile, quindi circa un
terzo del suo valore, non hanno impedito al Sud Sudan di continuare a
esportare il suo petrolio dopo il 9 luglio. Accumulando così debiti
nei confronti del Sudan e aggiungendo controversia a controversia: se
le tariffe non sono fissate, il debito di Juba non può essere
definito in modo univoco. E quindi anche la decisione di Khartoum,
che a dicembre è passata alle vie di fatto requisendo una parte del
greggio sudsudanese come compensazione, ha contribuito a rendere
ancora più tesi i rapporti tra i due governi.
L'ennesimo round negoziale, che si è aperto nei giorni scorsi ad
Addis Abeba, è quindi iniziato nel peggiore dei modi, con scambi di
accuse e conti che non tornano da entrambe le parti. La decisione di
Juba di bloccare la produzione petrolifera è stata probabilmente
pensata come strumento di pressione. Sul governo di Khartoum, ma
anche su Cina, India e Malaysia, i principali investitori del settore
petrolifero dei due Sudan, affinché intervengano direttamente per
favorire un compromesso. Il governo di Pechino, che già aveva
criticato la decisione di Khartoum di iniziare a requisire il
petrolio sudsudanese, ha immediatamente reagito, chiedendo di nuovo
alle parti di mantenere la calma, evitare di adottare misure estreme
e continuare i dialoghi.
Ma la Cina e gli altri operatori stranieri potrebbero fare di più:
Dau inizierà già nei prossimi giorni a sentire le compagnie
petrolifere presenti nel paese per mettere a punto un progetto per un
oleodotto che, attraverso l'Uganda o l'Etiopia, arrivi in Kenia, al
porto di Lamu, aprendo così al petrolio sudsudanese una via
alternativa verso l'Oceano Indiano. Un progetto finora lasciato in
sospeso, per i costi e le difficoltà logistiche. Ma che ora Juba
considera “la priorità nazionale”.
L'articolo è stato pubblicato oggi sul sito del Fatto quotidiano.
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