Charles Taylor, ex leader ribelle ed ex presidente della Liberia, è stato condannato a 50 anni di carcere. Una pena lunghissima, che equivale di fatto a un ergastolo (Taylor ha 64 anni) e che i giudici del Tribunale speciale per la Sierra Leone hanno deciso essere la più giusta per un ex capo di stato ritenuto colpevole di correità nei crimini di guerra e contro l'umanità commessi dai ribelli del RUF durante la guerra civile in Sierra Leone, negli anni Novanta.
Già a fine aprile, quando i giudici dell'Aja l'avevano giudicato colpevole, molti commentatori e i gruppi per la tutela dei diritti umani avevano salutato la decisione come precedente di portata storica, perché la condanna di Taylor avrebbe avuto il senso di un messaggio ad altri dittatori e perpetratori di crimini contro l'umanità: per quanto potenti possiate essere, prima o poi potrete dover rispondere dei crimini che avete commesso.
E' veramente così? A mio parere, sì. Ma potrebbe non essere solo ed esclusivamente un bene, almeno nell'immediatezza di una guerra civile e della necessità di porvi fine.
Mi spiego: la vicenda Taylor è già da quasi dieci anni un monito per molti suoi colleghi (sia capi ribelli, sia capi di stato). Quando nel 2003 Taylor ha lasciato il potere a Monrovia, gli erano state promesse protezione e impunità in un esilio dorato in Nigeria. Come da tradizione: non era il primo capo di stato che in Africa - e ancor meno a livello mondiale - finiva così la sua più che controversa esperienza politica. Il colpo di scena è avvenuto a inizio 2006: nei mesi precedenti la sua Liberia era andata al voto, eleggendo presidente della repubblica Ellen Johnson-Sirleaf. Che arrivata al potere ha deciso che il tacito accordo sull'immunità del suo predecessore non valeva più. Sotto pressione da parte della nuova presidente liberiana, il governo nigeriano ha allora deciso di arrestare Taylor e consegnarlo alla giustizia internazionale.
Già all'epoca avevo scritto questo articolo per Lettera22. L'arresto di Taylor poteva lasciar sperare nella fine dell'impunità? Nei mesi e anni successivi, con la creazione e l'inizio dei lavori del Tribunale penale internazionale (Tpi) dell'Aja, mi sono fatta la stessa domanda molte volte. La risposta, già all'inizio del processo a Taylor nel gennaio 2008, non era più univoca, come potete leggere in quest'altro articolo scovato sempre nel ricchissimo archivio di Lettera22. Mi chiedevo:
I dubbi mi venivano dal caso del Lord's Resistance Army nord-ugandese, il primo su cui l'allora procuratore generale del Tpi, Luis Moreno-Ocampo, si era impegnato, su richiesta del governo di Kampala. I mandati di arresto internazionali ai danni di Joseph Kony e dei quattro suoi più importanti luogotenenti stavano impedendo - e avrebbero fatto definitivamente naufragare - la conclusione di un accordo di pace con Museveni. Quattro anni dopo, solo la morte ha messo fuori gioco tre dei ricercati. Kony e l'ultimo luogotenente rimasto in vita sono ancora a capo di un Lra sempre meno nord-ugandese, che rimane attivo e continua a fare vittime nelle foreste al confine tra il Sud Sudan occidentale, la Repubblica democratica del Congo orientale e la Repubblica centroafricana sud-orientale.
Apparentemente imprendibile e da sempre considerato un pazzo, Kony è stato però prudente e accorto a tal punto da non fidarsi delle promesse di amnistia ripetute duranti i negoziati di Juba dalla delegazione governativa ugandese. Quel mandato di cattura internazionale gli ha fatto scegliere di giocarsi il tutto per tutto, piuttosto di rischiare di finire in un carcere all'Aja (anche se, come giustamente mi ha fatto notare un amico che aveva partecipato ai negoziati di Juba e aveva incontrato Kony nel bush al confine tra Repubblica democratica del Congo e Sud Sudan, "forse qualcuno gli avrebbe dovuto mostrare le foto delle celle dell'Aja: sarebbe stato sicuramente più comodo e pasciuto lì che in fuga per le foreste centro-africane!")
Sei mesi dopo quell'articolo, Moreno Ocampo ha puntato l'attenzione sua e del Tpi sul presidente sudanese Bashir. A marzo 2009 è arrivata l'incriminazione e il mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l'umanità, nel 2010 anche quello per genocidio. Anche nel caso di Bashir si era detto che l'azione del Tpi avrebbe finalmente portato giustizia alle vittime del Darfur. Sono passati tre anni e Bashir è ancora lì, nel 2010 è stato rieletto presidente, ottenendo quell'investitura popolare che cercava, e finora nessuno è stato in grado di arrestarlo. Il Sudan non è parte del Tpi e non ne riconosce la giurisdizione. Anche se lo facesse, sarebbe comunque difficile immaginare che la polizia sudanese possa arrestare il proprio capo di stato in carica e consegnarlo all'Aja. E' vero, Bashir in questi anni ha potuto muoversi di meno di prima. Ma si è mosso, è andato all'estero visitando non solo paesi che non sono parte del Tpi, ma anche paesi, come il Ciad e il Kenia, che riconoscono il Tribunale al punto da averlo investito dell'incarico di indagare su casi interni.
Forse a un certo punto Bashir sarà arrestato, ora come ora è impossibile prevedere se e quando. Quello che è certo è che il mandato di cattura internazionale che gli pende come una spada di Damocle sulla testa lo spingerà a rimanere al potere con ogni mezzo, costi quel che costi, a lui e alla popolazione sudanese. E, dal suo punto di vista, è logico che sia così. Perché è ormai sempre più improbabile che un capo di stato in seria difficoltà interna possa ripetere la scelta fatta da Taylor nel 2003: lasciare il potere e ritirarsi a ricca e pacifica vita privata all'estero. Come essere certi che l'accordo fatto con chi gli succede sarà poi mantenuto e non fatto saltare come è stato con Taylor? Gli equilibri politici potrebbero cambiare nel paese d'origine, in quello di esilio o in entrambi: perché rischiare? Meglio rimanere ancorati il più a lungo possibile alla propria alta poltrona, usando tutti i mezzi, anche i più cruenti.
C'è poi un'altra questione: il Tpi ha mandato universale, ma finora si è occupato solo ed esclusivamente di casi africani. La condanna a Taylor, seppur comminata dal Tribunale speciale per la Sierra Leone e non da Tpi, conferma agli occhi di molti africani - governi e semplici cittadini - la spiacevole sensazione di una giustizia occidentale che si abbatte solo sul continente africano, tralasciando tutti gli altri casi di crimini di guerra e contro l'umanità compiuti in altri continenti (e ce ne sarebbero molti). Quasi una nuova forma di colonialismo in salsa giudiziaria. Basta dare un'occhiata, ad esempio, allo speciale intitolato "ICC vs Africa" uscito sul numero di marzo 2012 del mensile in lingua inglese New African. Che sul numero di giugno (non ancora online, ma già leggibile su smartphone e iPad) dedica molte pagine al caso di Taylor, arrivando addirittura a chiedersi se l'ex presidente liberiano sia "really guilty as charged".
Taylor dietro le sbarre è una sicurezza e una giustizia in più. Su questo non c'è dubbio, come sono fuori di dubbio le responsabilità che ha avuto nella guerra civile in Sierra Leone. E bene hanno fatto i giudici a considerare l'essere presidente della repubblica come un aggravante, visto che il suo ruolo di leadership avrebbe dovuto essere usato per tutelare la popolazione civile, del suo stato e di quello vicino, non per martoriarla. Ma il suo processo è stato possibile perché di fatto aveva già lasciato il potere, fidandosi dell'accordo di esilio. Un processo dei vincitori, di fatto. Ma se la vittoria, politica o militare, non è netta che si fa? Per durare, una soluzione negoziale deve prevedere anche un'amnistia, da una parte e dall'altra. Il dubbio che il caso Taylor, come precedente, possa favorire più il proseguimento delle guerre che il perseguimento della pace rimane.
Già a fine aprile, quando i giudici dell'Aja l'avevano giudicato colpevole, molti commentatori e i gruppi per la tutela dei diritti umani avevano salutato la decisione come precedente di portata storica, perché la condanna di Taylor avrebbe avuto il senso di un messaggio ad altri dittatori e perpetratori di crimini contro l'umanità: per quanto potenti possiate essere, prima o poi potrete dover rispondere dei crimini che avete commesso.
E' veramente così? A mio parere, sì. Ma potrebbe non essere solo ed esclusivamente un bene, almeno nell'immediatezza di una guerra civile e della necessità di porvi fine.
Mi spiego: la vicenda Taylor è già da quasi dieci anni un monito per molti suoi colleghi (sia capi ribelli, sia capi di stato). Quando nel 2003 Taylor ha lasciato il potere a Monrovia, gli erano state promesse protezione e impunità in un esilio dorato in Nigeria. Come da tradizione: non era il primo capo di stato che in Africa - e ancor meno a livello mondiale - finiva così la sua più che controversa esperienza politica. Il colpo di scena è avvenuto a inizio 2006: nei mesi precedenti la sua Liberia era andata al voto, eleggendo presidente della repubblica Ellen Johnson-Sirleaf. Che arrivata al potere ha deciso che il tacito accordo sull'immunità del suo predecessore non valeva più. Sotto pressione da parte della nuova presidente liberiana, il governo nigeriano ha allora deciso di arrestare Taylor e consegnarlo alla giustizia internazionale.
Già all'epoca avevo scritto questo articolo per Lettera22. L'arresto di Taylor poteva lasciar sperare nella fine dell'impunità? Nei mesi e anni successivi, con la creazione e l'inizio dei lavori del Tribunale penale internazionale (Tpi) dell'Aja, mi sono fatta la stessa domanda molte volte. La risposta, già all'inizio del processo a Taylor nel gennaio 2008, non era più univoca, come potete leggere in quest'altro articolo scovato sempre nel ricchissimo archivio di Lettera22. Mi chiedevo:
Ma, può sembrare una contraddizione, non sempre la ricerca della giustizia favorisce quella della pace. Che va fatta, per quanto possa risultare sgradevole, con chi ha la responsabilità del conflitto. ... In casi di conflitti ancora in corso (come il Darfur e l’est della Repubblica democratica del Congo, crisi su cui il Tpi ha già iniziato a lavorare da tempo) a cosa dare la priorità? Alla giustizia o alla pace?
I dubbi mi venivano dal caso del Lord's Resistance Army nord-ugandese, il primo su cui l'allora procuratore generale del Tpi, Luis Moreno-Ocampo, si era impegnato, su richiesta del governo di Kampala. I mandati di arresto internazionali ai danni di Joseph Kony e dei quattro suoi più importanti luogotenenti stavano impedendo - e avrebbero fatto definitivamente naufragare - la conclusione di un accordo di pace con Museveni. Quattro anni dopo, solo la morte ha messo fuori gioco tre dei ricercati. Kony e l'ultimo luogotenente rimasto in vita sono ancora a capo di un Lra sempre meno nord-ugandese, che rimane attivo e continua a fare vittime nelle foreste al confine tra il Sud Sudan occidentale, la Repubblica democratica del Congo orientale e la Repubblica centroafricana sud-orientale.
Apparentemente imprendibile e da sempre considerato un pazzo, Kony è stato però prudente e accorto a tal punto da non fidarsi delle promesse di amnistia ripetute duranti i negoziati di Juba dalla delegazione governativa ugandese. Quel mandato di cattura internazionale gli ha fatto scegliere di giocarsi il tutto per tutto, piuttosto di rischiare di finire in un carcere all'Aja (anche se, come giustamente mi ha fatto notare un amico che aveva partecipato ai negoziati di Juba e aveva incontrato Kony nel bush al confine tra Repubblica democratica del Congo e Sud Sudan, "forse qualcuno gli avrebbe dovuto mostrare le foto delle celle dell'Aja: sarebbe stato sicuramente più comodo e pasciuto lì che in fuga per le foreste centro-africane!")
Sei mesi dopo quell'articolo, Moreno Ocampo ha puntato l'attenzione sua e del Tpi sul presidente sudanese Bashir. A marzo 2009 è arrivata l'incriminazione e il mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l'umanità, nel 2010 anche quello per genocidio. Anche nel caso di Bashir si era detto che l'azione del Tpi avrebbe finalmente portato giustizia alle vittime del Darfur. Sono passati tre anni e Bashir è ancora lì, nel 2010 è stato rieletto presidente, ottenendo quell'investitura popolare che cercava, e finora nessuno è stato in grado di arrestarlo. Il Sudan non è parte del Tpi e non ne riconosce la giurisdizione. Anche se lo facesse, sarebbe comunque difficile immaginare che la polizia sudanese possa arrestare il proprio capo di stato in carica e consegnarlo all'Aja. E' vero, Bashir in questi anni ha potuto muoversi di meno di prima. Ma si è mosso, è andato all'estero visitando non solo paesi che non sono parte del Tpi, ma anche paesi, come il Ciad e il Kenia, che riconoscono il Tribunale al punto da averlo investito dell'incarico di indagare su casi interni.
Forse a un certo punto Bashir sarà arrestato, ora come ora è impossibile prevedere se e quando. Quello che è certo è che il mandato di cattura internazionale che gli pende come una spada di Damocle sulla testa lo spingerà a rimanere al potere con ogni mezzo, costi quel che costi, a lui e alla popolazione sudanese. E, dal suo punto di vista, è logico che sia così. Perché è ormai sempre più improbabile che un capo di stato in seria difficoltà interna possa ripetere la scelta fatta da Taylor nel 2003: lasciare il potere e ritirarsi a ricca e pacifica vita privata all'estero. Come essere certi che l'accordo fatto con chi gli succede sarà poi mantenuto e non fatto saltare come è stato con Taylor? Gli equilibri politici potrebbero cambiare nel paese d'origine, in quello di esilio o in entrambi: perché rischiare? Meglio rimanere ancorati il più a lungo possibile alla propria alta poltrona, usando tutti i mezzi, anche i più cruenti.
C'è poi un'altra questione: il Tpi ha mandato universale, ma finora si è occupato solo ed esclusivamente di casi africani. La condanna a Taylor, seppur comminata dal Tribunale speciale per la Sierra Leone e non da Tpi, conferma agli occhi di molti africani - governi e semplici cittadini - la spiacevole sensazione di una giustizia occidentale che si abbatte solo sul continente africano, tralasciando tutti gli altri casi di crimini di guerra e contro l'umanità compiuti in altri continenti (e ce ne sarebbero molti). Quasi una nuova forma di colonialismo in salsa giudiziaria. Basta dare un'occhiata, ad esempio, allo speciale intitolato "ICC vs Africa" uscito sul numero di marzo 2012 del mensile in lingua inglese New African. Che sul numero di giugno (non ancora online, ma già leggibile su smartphone e iPad) dedica molte pagine al caso di Taylor, arrivando addirittura a chiedersi se l'ex presidente liberiano sia "really guilty as charged".
Taylor dietro le sbarre è una sicurezza e una giustizia in più. Su questo non c'è dubbio, come sono fuori di dubbio le responsabilità che ha avuto nella guerra civile in Sierra Leone. E bene hanno fatto i giudici a considerare l'essere presidente della repubblica come un aggravante, visto che il suo ruolo di leadership avrebbe dovuto essere usato per tutelare la popolazione civile, del suo stato e di quello vicino, non per martoriarla. Ma il suo processo è stato possibile perché di fatto aveva già lasciato il potere, fidandosi dell'accordo di esilio. Un processo dei vincitori, di fatto. Ma se la vittoria, politica o militare, non è netta che si fa? Per durare, una soluzione negoziale deve prevedere anche un'amnistia, da una parte e dall'altra. Il dubbio che il caso Taylor, come precedente, possa favorire più il proseguimento delle guerre che il perseguimento della pace rimane.
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