mercoledì 23 novembre 2011

Rivoluzioni on air: non solo Cairo

Sono giorni convulsi questi. Nella mia amata Cairo, ad Alessandria, nel resto dell'Egitto. Ma anche negli altri paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Sto cercando di seguire passo passo soprattutto gli eventi del Cairo, che sento più vicini a me. Però non ne voglio parlare qui, non adesso almeno. Vi consiglio invece di seguire con attenzione sia il blog di Paola Caridi, sia il sito di Arabist, da cui ho tratto questa "mappa" delle posizioni dei diversi movimenti, partiti e personalità egiziane rispetto alle offerte dello SCAF.

dal sito www.arabist.net

La rivoluzione è tornata a piazza Tahrir, riprendendo le fila di un discorso sospeso, ma mai realmente interrotto né tantomeno concluso, con la deposizione di Mubarak l'11 febbraio scorso. Ma non c'è solo l'Egitto. Gli ultimi giorni sono stati ricchi di eventi anche negli altri paesi della regione toccati dalle rivoluzioni. E allora ho cercato di sintetizzare gli ultimi avvenimenti, per avere un quadro - minimo, schematico - di cosa sta succedendo. 

Iniziamo dall'ultima notizia in ordine di tempo: oggi pomeriggio, di fronte al sovrano saudita Abdallah, il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh ha firmato un accordo con l'opposizione yemenita, aprendo un processo di trasferimento del potere entro 30 giorni al suo vice-presidente, con la previsione di creare a breve un governo di unità nazionale e di indire elezioni presidenziali entro 90 giorni. Dopo 33 anni, quindi, anche Saleh si è ufficialmente impegnato a lasciare il potere, anche se in un modo molto diverso rispetto ai suoi “predecessori”, Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. L'accordo, negoziato dal Consiglio per la cooperazione dei paesi del Golfo (Gulf Cooperation Council, Gcc) e dalle Nazioni Unite, garantisce infatti a Saleh e ai suoi familiari l'immunità da qualsiasi processo, oltre che la possibilità di continuare, ufficiosamente e da dietro le quinte, a guidare la transizione, visto che questa nell'immediato sarà affidata al vice-presidente. Per quanto importante, inoltre, l'accordo è stato firmato con i partiti politici di opposizione, non con i rappresentanti dei dimostranti che, come negli altri paesi della regione, sono scesi in piazza a Sana'a fin dall'inizio dell'anno. Rimarrà quindi da vedere se e fino a che punto la piazza, oggi ancora molto tesa, accetterà un processo di transizione soft e che per di più garantisce a Saleh l'immunità.

Mentre tra Sana'a e Riyadh andava in scena l'atto finale del più che trentennale regime yemenita, dall'altra parte delle penisola arabica, in Bahrain, un altro evento senza precedenti ha avuto luogo: la commissione d'inchiesta indipendente voluta dal sovrano del piccolo regno del Golfo dopo le violenze che hanno insanguinato le manifestazioni della scorsa primavera, ha presentato il suo rapporto finale. In cui si dice, senza giri di parole, che le forze di sicurezza del regno hanno fatto “un uso eccessivo della forza”, che nessuno deve essere arrestato arbitrariamente, che i manifestanti arrestati sono stati torturati, che non c'è alcuna prova che l'Iran abbia alimentato le proteste, guidate dalla forte minoranza sciita del Bahrain, completamente esclusa dal potere. A scorrere i tweets del pomeriggio, segnati dall'ashtag #BICI (ovvero Bahrain Independent Commission of Inquiry), si poteva notare innanzitutto la sorpresa di molti, cittadini del Bahrain e non. Per quanto definita “indipendente”, la commissione era stata voluta dal re, quindi erano in molti a temere che fosse solo un'operazione di facciata. Primo dato sorprendente: così non è stato, come aveva promesso il presidente della commissione fin dalla sua nomina a giugno. Secondo dato ancora più rilevante: il rapporto finale è stato reso pubblico alla presenza del re, che ha ascoltato le critiche, ne ha preso atto e ha risposto, dicendosi comunque convinto del ruolo dell'Iran, ma anche dicendo che il governo trarrà le sue conclusioni e conseguenze sulla base di quanto detto nel rapporto. Il tutto mentre il servizio informativo ufficiale del regno continuava a tweettare aggiornamenti sui risultati dell'inchiesta.

Cambieranno le cose anche in Bahrain? Difficile prevederlo, forse tutto il lavoro della Bici non porterà a nulla. Ma potrebbe anche essere un primo passo, neanche tanto timido. Come un primo passo, importante, per la nuova Tunisia è stata l'apertura, martedì, della neo-eletta assemblea costituente, che avrà un anno di tempo per scrivere la nuova costituzione del paese. Come primo atto, l'assemblea ha eletto il suo presidente: Mustafa Ben Jaafar, il leader del partito laico Ettakatol, che in coalizione con il partito del Congresso per la Repubblica, sempre laico, e con il partito d'ispirazione islamica An-Nahda formerà il nuovo governo. A guidarlo, sarà il segretario generale di An-Nahda, Hamadi Jbeli, forte del 40% dei voti raccolti dal suo partito nelle elezioni del 23 ottobre. Partiti diversi per orientamento politico, uniti dall'opposizione al regime di Ben Ali, che si dividono il potere (il leader del partito del Congresso per la Repubblica sarà il nuovo presidente) in base ai rapporti di forza certificati da elezioni libere: nessuno avrebbe potuto prevederlo anche solo un anno fa. 

A relativamente pochi chilometri da Tunisi, sempre martedì anche la Libia ha fatto un passo avanti sul difficile sentiero del dopo-Gheddafi. Dopo un fine settimana che ha registrato l'arresto del figlio e presunto delfino dell'ex Guida, Saif al-Islam, e (pare, non è stato ancora definitivamente confermato) del temutissimo ex capo dei servizi segreti di Gheddafi, Abdullah al-Sanussi, il primo ministro designato, Abdurrahim al-Keib, ha annunciato la formazione di un nuovo esecutivo. A suo dire il più inclusivo possibile, rappresentante di tutte le regioni, le componenti etniche e gli orientamenti politici del paese. Un mosaico difficile da tenere assieme e che probabilmente lascerà comunque l'amaro in bocca a qualcuno.

Ancor più difficile sarà tenere assieme il paese, profondamente ferito dai mesi di guerra. La strada sarà in salita e ricca di incognite. Forse però non così numerose come quelle che annebbiano l'orizzonte siriano. Dopo mesi di violenta repressione, Bashar al-Assad si trova ancora più isolato di quanto non fosse solo una settimana fa, dopo la decisione della Lega Araba di sospendere il paese e le parole sempre più dure del vicino turco. Martedì il primo ministro turco Ergodan ha ripetuto che Assad deve andarsene, perché il futuro della Siria non può essere costruito “sul sangue degli oppressi”, mentre il presidente Gul, in visita di stato a Londra, ribadiva che la Siria ha bisogno di “riforme fondamentali”. Un messaggio univoco, che per il momento Bashar non sembra sia disposto ad ascoltare.

Intanto, ogni giorno il numero dei morti aumenta ma, come i loro “colleghi” a piazza Tahrir e per le vie di Alessandria, i manifestanti siriani non sembrano minimamente disposti ad arretrare, né tantomeno ad arrendersi. Lo si legge chiaramente nei tweets e nelle dichiarazioni degli attivisti in piazza al Cairo. "Che altro paese può dire di avere lo stesso livello di consapevolezza politica e di determinazione?", ha chiesto ieri, ai microfoni di Al-Jazeera English (che continua a coprire gli eventi di tutta la regione con grande cura), Khalid Abdullah, giovane attore e attivista egiziano. Forse nessuno, forse la Siria. Difficile dirlo, visto che le voci degli attivisti siriani quasi non riescono a trapelare.

Vedremo come andranno i prossimi giorni. O forse settimane e mesi. Perché la ripresa della battaglia a midan Tahrir dimostra chiaramente che le rivoluzioni sono faccende lunghe, che la contro-rivoluzione è sempre in agguato, che un regime oppone resistenza allo smantellamento, anche se il dittatore di turno viene rimosso. Lo stesso Khalid ieri ha ammesso, tra le righe, che la piazza aveva creduto ai militari, si era fidata. "Abbiamo dato ai militare un'occasione d'oro a febbraio, l'hanno sprecata".
E quindi la rivoluzione continua, i passi avanti e le lotte degli uni a dare forza e determinazione agli altri, in questo travolgente 2011 di rivoluzioni e di richieste impossibili che diventano realtà, seppur a prezzo altissimo. Perché, sebbene ogni crisi e processo sia necessariamente nazionale, quindi un caso a sé, diverso da quello dei paesi vicini, le richieste di libertà e dignità, di democrazia ed equità sociale ed economica sono le stesse, in tutta la regione.

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