Sono giorni convulsi questi. Nella mia amata Cairo, ad Alessandria, nel resto dell'Egitto. Ma anche negli altri paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Sto cercando di seguire passo passo soprattutto gli eventi del Cairo, che sento più vicini a me. Però non ne voglio parlare qui, non adesso almeno. Vi consiglio invece di seguire con attenzione sia il blog di Paola Caridi, sia il sito di Arabist, da cui ho tratto questa "mappa" delle posizioni dei diversi movimenti, partiti e personalità egiziane rispetto alle offerte dello SCAF.
dal sito www.arabist.net |
La rivoluzione è tornata a piazza Tahrir, riprendendo le fila di un discorso sospeso, ma mai realmente interrotto né tantomeno concluso, con la deposizione di Mubarak l'11 febbraio scorso. Ma non c'è solo l'Egitto. Gli ultimi giorni sono stati ricchi di eventi anche negli altri paesi della regione toccati dalle rivoluzioni. E allora ho cercato di sintetizzare gli ultimi avvenimenti, per avere un quadro - minimo, schematico - di cosa sta succedendo.
Iniziamo dall'ultima notizia in ordine di tempo: oggi pomeriggio, di fronte al
sovrano saudita Abdallah, il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh
ha firmato un accordo con l'opposizione yemenita, aprendo un processo
di trasferimento del potere entro 30 giorni al suo vice-presidente,
con la previsione di creare a breve un governo di unità nazionale e
di indire elezioni presidenziali entro 90 giorni. Dopo 33 anni,
quindi, anche Saleh si è ufficialmente impegnato a lasciare il
potere, anche se in un modo molto diverso rispetto ai suoi
“predecessori”, Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. L'accordo, negoziato dal Consiglio per la
cooperazione dei paesi del Golfo (Gulf Cooperation Council, Gcc) e
dalle Nazioni Unite, garantisce infatti a Saleh e ai suoi familiari
l'immunità da qualsiasi processo, oltre che la possibilità di
continuare, ufficiosamente e da dietro le quinte, a guidare la transizione, visto che questa nell'immediato sarà affidata al vice-presidente. Per quanto
importante, inoltre, l'accordo è stato firmato con i partiti
politici di opposizione, non con i rappresentanti dei dimostranti
che, come negli altri paesi della regione, sono scesi in piazza a
Sana'a fin dall'inizio dell'anno. Rimarrà quindi da vedere se e fino
a che punto la piazza, oggi ancora molto tesa, accetterà un processo di
transizione soft e che per di più garantisce a Saleh l'immunità.
Mentre tra Sana'a e
Riyadh andava in scena l'atto finale del più che trentennale regime
yemenita, dall'altra parte delle penisola arabica, in Bahrain, un
altro evento senza precedenti ha avuto luogo: la commissione
d'inchiesta indipendente voluta dal sovrano del piccolo regno del
Golfo dopo le violenze che hanno insanguinato le manifestazioni della
scorsa primavera, ha presentato il suo rapporto finale. In cui si
dice, senza giri di parole, che le forze di sicurezza del regno hanno
fatto “un uso eccessivo della forza”, che nessuno deve essere
arrestato arbitrariamente, che i manifestanti arrestati sono stati
torturati, che non c'è alcuna prova che l'Iran abbia alimentato le
proteste, guidate dalla forte minoranza sciita del Bahrain,
completamente esclusa dal potere. A scorrere i tweets del pomeriggio,
segnati dall'ashtag #BICI (ovvero Bahrain Independent Commission of
Inquiry), si poteva notare innanzitutto la sorpresa di molti,
cittadini del Bahrain e non. Per quanto definita “indipendente”,
la commissione era stata voluta dal re, quindi erano in molti a
temere che fosse solo un'operazione di facciata. Primo dato
sorprendente: così non è stato, come aveva promesso il presidente della commissione fin dalla sua nomina a
giugno. Secondo dato ancora
più rilevante: il rapporto finale è stato reso pubblico alla
presenza del re, che ha ascoltato le critiche, ne ha preso atto e ha
risposto, dicendosi comunque convinto del ruolo dell'Iran, ma anche
dicendo che il governo trarrà le sue conclusioni e conseguenze sulla
base di quanto detto nel rapporto. Il tutto mentre il servizio
informativo ufficiale del regno continuava a tweettare aggiornamenti
sui risultati dell'inchiesta.
Cambieranno le cose anche
in Bahrain? Difficile prevederlo, forse tutto il lavoro della Bici non porterà a nulla. Ma potrebbe anche essere un primo
passo, neanche tanto timido. Come un primo passo, importante, per la nuova Tunisia è stata
l'apertura, martedì, della neo-eletta assemblea costituente, che
avrà un anno di tempo per scrivere la nuova costituzione del paese.
Come primo atto, l'assemblea ha eletto il suo presidente: Mustafa Ben
Jaafar, il leader del partito laico Ettakatol, che in coalizione con
il partito del Congresso per la Repubblica, sempre laico, e con il
partito d'ispirazione islamica An-Nahda formerà il nuovo governo. A
guidarlo, sarà il segretario generale di An-Nahda, Hamadi Jbeli,
forte del 40% dei voti raccolti dal suo partito nelle elezioni del 23
ottobre. Partiti diversi per orientamento politico, uniti dall'opposizione al regime di Ben Ali, che si dividono il potere (il leader del partito del Congresso per la Repubblica sarà il nuovo presidente) in base ai rapporti di forza certificati da elezioni libere: nessuno avrebbe potuto prevederlo anche solo un anno fa.
A relativamente pochi
chilometri da Tunisi, sempre martedì anche la Libia ha fatto un
passo avanti sul difficile sentiero del dopo-Gheddafi. Dopo un fine
settimana che ha registrato l'arresto del figlio e presunto delfino
dell'ex Guida, Saif al-Islam, e (pare, non è stato ancora
definitivamente confermato) del temutissimo ex capo dei servizi
segreti di Gheddafi, Abdullah al-Sanussi, il primo ministro
designato, Abdurrahim al-Keib, ha annunciato la formazione di un
nuovo esecutivo. A suo dire il più inclusivo possibile,
rappresentante di tutte le regioni, le componenti etniche e gli
orientamenti politici del paese. Un mosaico difficile da tenere
assieme e che probabilmente lascerà comunque l'amaro in bocca a
qualcuno.
Ancor più difficile sarà
tenere assieme il paese, profondamente ferito dai mesi di guerra. La
strada sarà in salita e ricca di incognite. Forse però non così
numerose come quelle che annebbiano l'orizzonte siriano. Dopo mesi di
violenta repressione, Bashar al-Assad si trova ancora più isolato di
quanto non fosse solo una settimana fa, dopo la decisione della Lega
Araba di sospendere il paese e le parole sempre più dure del vicino
turco. Martedì il primo ministro turco Ergodan ha ripetuto che Assad
deve andarsene, perché il futuro della Siria non può essere
costruito “sul sangue degli oppressi”, mentre il presidente Gul,
in visita di stato a Londra, ribadiva che la Siria ha bisogno di
“riforme fondamentali”. Un messaggio univoco, che per il momento
Bashar non sembra sia disposto ad ascoltare.
Intanto, ogni giorno il
numero dei morti aumenta ma, come i loro “colleghi” a piazza
Tahrir e per le vie di Alessandria, i manifestanti siriani non
sembrano minimamente disposti ad arretrare, né tantomeno ad
arrendersi. Lo si legge chiaramente nei tweets e nelle dichiarazioni degli attivisti in piazza al Cairo. "Che altro paese può dire di avere lo stesso livello di consapevolezza politica e di determinazione?", ha chiesto ieri, ai microfoni di Al-Jazeera English (che continua a coprire gli eventi di tutta la regione con grande cura), Khalid Abdullah, giovane attore e attivista egiziano. Forse nessuno, forse la Siria. Difficile dirlo, visto che le voci degli attivisti siriani quasi non riescono a trapelare.
Vedremo come andranno i prossimi giorni. O forse settimane e mesi. Perché la ripresa della battaglia a midan Tahrir dimostra chiaramente che le rivoluzioni sono faccende lunghe, che la contro-rivoluzione è sempre in agguato, che un regime oppone resistenza allo smantellamento, anche se il dittatore di turno viene rimosso. Lo stesso Khalid ieri ha ammesso, tra le righe, che la piazza aveva creduto ai militari, si era fidata. "Abbiamo dato ai militare un'occasione d'oro a febbraio, l'hanno sprecata".
E quindi la rivoluzione continua, i passi avanti e le lotte degli uni a dare forza e determinazione agli altri, in questo travolgente 2011 di rivoluzioni e di richieste impossibili che diventano realtà, seppur a prezzo altissimo. Perché, sebbene ogni crisi e processo sia necessariamente nazionale, quindi un caso a sé, diverso da quello dei paesi vicini, le richieste di libertà e dignità, di democrazia ed equità sociale ed economica sono le stesse, in tutta la regione.
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