Ramciel è difficile da
trovare, su qualsiasi mappa. Ma il nuovo governo della neonata
Repubblica del Sud Sudan ha deciso che entro sei anni la capitale
sarà trasferita lì, nel centro geografico dello stato, terra di
pascoli e allevatori semi-nomadi, dove la terra non manca e sarà
quindi possibile costruire una nuova città dal nulla o quasi.
È stata questa la prima
decisione che l'esecutivo dell'ultimo nato tra gli stati del mondo ha
preso nella sua riunione inaugurale. A due mesi esatti dalla
proclamazione dell'indipendenza, il 9 luglio scorso, la vita politica
e amministrativa del Sud Sudan passa anche da qui.
Era una mossa
attesa, si sapeva che l'intenzione del presidente della repubblica,
Salva Kiir Mayardit, era quella di spostare la capitale da Juba, la
città principale del Sud Sudan. Che dalla pace con il Nord del 9
gennaio 2005, che ha posto fine a quasi ventidue anni di guerra, è
stata la sede di ministeri, assemblea legislativa e governo. In
questi sei anni Juba è cambiata moltissimo. Sono stati asfaltati
circa 60 km di strade, gli unici in tutto il Sud Sudan, uno stato
grande due volte l'Italia. Sono stati ristrutturati o costruiti ex
novo gli edifici che ospitano i ministeri. Sono arrivati gli
investimenti stranieri, bar e ristoranti hanno aperto, l'aeroporto è
stato ampliato per far fronte a un flusso di aerei che mai Juba aveva
visto prima.Ma lo sviluppo dell'attuale capitale ha creato frizioni tra quello che fino al 9 luglio era il governo regionale autonomo e la comunità bari, la popolazione che abita la regione di Juba da sempre. Quello con i bari è essenzialmente uno scontro sulla terra: sviluppandosi, la città ha avuto bisogno di maggior spazio e il governo sudsudanese ha preso terre che i bari consideravano loro. L'idea quindi che nei prossimi anni, diventando ufficialmente la capitale di uno stato indipendente, Juba possa aver bisogno di ampliarsi ancora di più allarmava non poco la comunità bari.
Ramciel non dovrebbe
porre gli stessi problemi. E, secondo le intenzioni del governo, una
capitale costruita ex novo al centro della neonata repubblica, nel
punto in cui si incontrano le tre “grandi regioni” del Bahr
al-Ghazal, dell'Alto Nilo e dell'Equatoria, che ricalcano le
divisioni amministrative di epoca coloniale e sono ora divise in vari
stati, dovrebbe servire anche a contribuire allo sviluppo di un
“senso nazionale”. Che in realtà in Sud Sudan manca. Abitata da
circa cento popolazioni diverse, la regione ha costruito la propria
identità sulla contrapposizione e la differenziazione dal Nord
Sudan. Ma al suo interno è rimasta molto divisa, anche a causa dei
conflitti, armati e cruenti oltre che politici, tra le diverse
popolazioni sudsudanesi che si sono sviluppati all'interno o ai
margini della pluridecennale guerra contro il Nord.
È così più facile
sentire le persone definirsi innanzitutto come nuer, dinka, bari,
lotuko o zande piuttosto che come cittadini sudsudanesi.
L'indipendenza ottenuta il 9 luglio potrebbe nel tempo cambiare
questo stato di cose. L'avere una comune bandiera, un comune inno e
altri segni tangibili di indipendenza nazionale, ottenuta dopo anni
di lotta e con la partecipazione pressoché totale della popolazione
al referendum per l'autodeterminazione della regione dello scorso
gennaio, potrebbe aiutare quel processo di nation building
che il governo di Salva Kiir ha segnalato come prioritario.
Ma da
soli i segni non bastano. Il Sud Sudan si è affacciato
all'indipendenza con indicatori di sviluppo (analfabetismo, numero di
medici per abitanti, mortalità materna e infantile e via dicendo)
tra i peggiori al mondo. Tra quel 98% della popolazione che a gennaio
si è recato alle urne con ordine e orgoglio per scegliere
l'indipendenza sono molti quelli che hanno votato “perché da
indipendenti saremo finalmente padroni delle nostre risorse e potremo
avere scuole e dispensari per i nostri figli, sviluppo, sicurezza e
pace”.
Aspettative
altissime, che si traducono in sfide da vincere per il governo.
Sfide, però, da far tremare i polsi anche al più serio ed
efficiente esecutivo del mondo. Perché con standard di sviluppo
bassissimi, infrastrutture a dir poco carenti, corruzione galoppante
e molte questioni ancora irrisolte nel rapporto con il Nord Sudan –
a iniziare dall'accordo ancora mancante su come gestire la ricchezza
petrolifera sudsudanese, che ha bisogno delle infrastrutture del Nord
per essere sfruttata ed esportata –, riuscire a stare al passo
delle aspettative della popolazione sarebbe difficile per chiunque. A
maggior ragione per un esecutivo, varato solo a fine agosto, che
secondo quanto promesso da Kiir avrebbe dovuto essere “snello” e
che invece conta più di quaranta tra ministri e viceministri, in cui
ricompaiono alcune personalità note per la loro corruzione e che si
trova a governare un paese in cui il ricorso alla violenza è la
strada più veloce da percorrere.
Questo
è forse l'elemento più preoccupante. Perché nonostante la pace con
il Nord Sudan abbia tenuto, seppur con un conflitto neanche tanto
latente nella contestata area confinaria di Abyei, che neanche
l'accordo raggiunto ieri ad Addis Abeba per il ritiro entro fine
settembre dei due eserciti potrebbe riuscire a risolvere, il Sudan
meridionale non è uno stato pacificato. Secondo le stime dell'Onu,
nel 2011 ci sono stati finora almeno 1500 morti per scontri interni.
Scontri riconducibili a due categorie, non sempre distinguibili:
ribellioni armate con motivazioni politiche, nate dopo le elezioni
del 2010 o dopo il referendum di gennaio e guidate da alti ufficiali
dell'esercito che già durante la guerra civile erano a capo di
milizie quasi personali; e scontri cosiddetti tribali, tra
popolazioni o clan di allevatori, combattuti perlopiù sull'abigeato,
per l'accesso ai pascoli e ai punti d'acqua. Quindi scontri sulle
risorse, in aree remote e isolate, dove i servizi, anche quelli
d'emergenza portati dalle ong e dalle agenzie internazionali, quasi
non arrivano. Non basterà la costruzione di Ramciel a invertire la
rotta.
La foto, mia, è stata scattata al mercato delle vacche di Bor, capitale dello stato di Jonglei, durante la settimana del referendum (9-15 gennaio 2011).
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